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Quaderni di Formazione online
Presentazione
Continuiamo con la pubblicazione del testo Oltre il pieno impiego del 1984 riprendendo qui il primo capitolo, nel quale cercavamo di definire la situazione che si era appena instaurata come l’insorgere della crisi del Welfare State. Al quale facciamo seguire una breve riflessione critica sui limiti della trattazione.
Glosse (auto)critiche
Perché partire da un dubbio, come abbiamo fatto nel primo capitolo del testo che, quarant’anni dopo, ci accingiamo a rileggere criticamente? Per la semplice ragione che il dubbio rappresenta la condizione essenziale per accostarsi coerentemente a problemi che non si riescono ad inquadrare.
Se si presuppone la validità del proprio sapere e della propria esperienza non si può sperimentare l’emergere di problemi inattesi, la cui stessa formulazione è problematica. Né si possono intravvedere le novità che si affacciano nel mondo circostante, appunto perché esse rinviano ad una realtà che è ancora sconosciuta. Poiché il dubbio sembra però privare i soggetti che lo nutrono della forza di procedere secondo le loro stessi intenzioni, la tendenza prevalente è quella di accantonarlo. Spesso addirittura di rifiutarlo.
Ora, che la politica keynesiana del pieno impiego, con la quale si è dato corpo allo stato sociale nel dopoguerra, fosse qualcosa di non chiaramente definito sul piano storico è dimostrato dalla confusione che, negli anni in cui scrivevamo, è conseguita alle contraddizioni scaturite dalle sue stesse realizzazioni. Si tratta di una confusione che in qualche modo risale alle stesse formulazioni di Keynes, con le quali, nel tentativo di rimuovere o di ridimensionare la componente distruttiva del suo insegnamento, cercava di evidenziare prevalentemente l’aspetto positivo delle politiche che proponeva.
Si tratta di un aspetto sul quale occorre svolgere delle brevi considerazioni metodologiche. Al tempo di Keynes, come oggi col susseguirsi dei governi tecnici di “unità nazionale” , si temeva che ogni cambiamento potesse essere solo distruttivo. Per questo da parte dei conservatori, ma anche dei laburisti, si invocava continuamente la stabilità come preservazione di una condizione ottimale. Poiché la strategia del laissez faire, che aveva prevalso nel secolo precedente, aveva garantito uno straordinario sviluppo, si credeva che non ci si potesse scostare da essa, senza ripercussioni negative.
La conseguenza di questa situazione è stata che il cambiamento ha dovuto esser presentato sempre come unicamente riproduttivo delle condizioni esistenti. Non è un caso che questa lettura del keynesismo abbia prevalso anche nei decenni successivi. Scrive ad esempio Federico Caffè, nel 1977:
“Keynes, al centro delle più grande crisi economica che il mondo avesse mai sperimentato, non vi vide i segni premonitori delle contraddizioni insanabili del capitalismo, ma l’evidenza della colpevole inerzia delle persone poste in posizioni di responsabilità”.
La conseguenza di questo tipo di metabolizzazione dell’insegnamento di Keynes è che sparisce il problema delle forme dell’organizzazione sociale e dell’eventuale transizione dalle une alle altre. Una questione che Keynes affrontò solo per negarne la rilevanza.
È vero, infatti, che lo stesso Keynes oscillava continuamente tra rappresentazioni nelle quali quel problema trovava una timida enunciazione, e forme di pensiero nelle quali invece scompariva del tutto. Ma in questo secondo caso ciò accadeva perché lo stesso Keynes negava il carattere negativo, cioè rivoluzionario, delle sue proposte, ponendole invece come immediatamente praticabili. Basti pensare al modo in cui concluse il pamphlet scritto con Henderson Can Lloyd George do it?.
“Non c’è nessuna ragione per non sentirsi liberi, per essere coraggiosi, aperti, per sperimentare, per intraprendere, per testare le nostre possibilità. Di fronte a noi, ad ostruire il cammino, non ci sono altro che alcuni vecchi gentlemen, abbottonati nelle loro redingote, che hanno solo bisogno di essere trattati come un po’ di amichevole irriverenza e buttati all’aria come birilli.”
Così il cambiamento sociale sembra una cosa facile, immediatamente a portata di mano. Ma in tal modo si sottovaluta il fatto che quella plasticità individuale e collettiva che noi attribuiamo alla specie umana, in realtà è ogni volta una condizione da conquistare. Una conquista che viene banalizzata quando, si sostiene come fece Keynes nelle conclusioni della Teoria generale,
“prima o poi sono le idee, non gli interessi costituiti”
a contare.
Con questo approccio viene infatti messo in discussione un aspetto essenziale del processo evolutivo della società, che era stato enunciato in modo perentorio da Marx:
“non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza”.
Tenendo presente questo vincolo, si può riconoscere il carattere ambivalente del pensiero di Keynes. Egli infatti prospettava i cambiamenti necessari in maniera chiara, ma allo stesso tempo si illudeva che potessero essere attuati dalle classi egemoni dell’epoca. Quanto mai significativa è la considerazione contenuta sempre nelle battute conclusive della Teoria generale:
“l’ampliamento delle funzioni del governo, inerente al compito di coordinare tra loro la propensione al consumo e la propensione all’investimento, sembrerà ad un pubblicista del diciannovesimo secoli e a un finanziere americano contemporaneo una terribile violazione dell’individualismo, ma io la difendo, al contrario, sia come l’unico mezzo pratico per evitare la distruzione delle forme economiche esistenti nella loro totalità, sia come condizione per il funzionamento soddisfacente dell’iniziativa individuale”.
Come sappiamo è in questi termini che l’insegnamento di Keynes è stato recepito. Cioè, da un lato è prevalsa la convinzione, di una parte della società, che si stesse finalmente dando vita ad un sistema di diritti sociali, ma dall’altro le classi egemoni si sono convinte che si stesse solo sostenendo l’accumulazione, attraverso la realizzazione di un neocapitalismo.
Come vedremo nei prossimi Quaderni, nel testo abbiamo cercato di districare questa matassa, riconoscendo a Keynes il merito di aver compreso approfonditamente le contraddizioni che sarebbero comunque conseguite dalla politica del pieno impiego, ma allo stesso tempo non rimuovendo il fatto che egli sia incappato a sua volta in uno svolgimento contraddittorio del pensiero, pretendendo di imbrigliare i cambiamenti in limiti che ostacolavano l’ulteriore svolgimento positivo dell’evoluzione sociale. Ed è per questo che, quando le sue politiche hanno dato i frutti sperati, la società è piombata in uno stato confusionale, che ha impedito di comprendere ed affrontare le contraddizioni che da quei successi sono conseguite.
Ultima modifica: 20 Settembre 2023