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Quaderni di Formazione online
Presentazione
In questo quaderno, nel quale riportiamo il terzo capitolo di Oltre il pieno impiego, affrontiamo un apparente paradosso. Il grande ruolo storico dei rapporti capitalistici, affermatisi negli ultimi tre secoli, sta nel fatto che la spinta all’accumulazione da parte degli imprenditori ha comportato una sistematica crescita delle risorse e delle forze produttive.
Il mondo in cui viviamo non ha nulla a vedere con le precedenti condizioni dell’umanità. Tuttavia, proprio l’ossessiva subordinazione del processo di produzione a quella finalità ha innescato, a partire da inizio Novecento, un’evidente contraddizione. La società non produce tutti i beni che potrebbe produrre e non soddisfa tutti i bisogni soddisfacibili perché continua ad imporre come condizione che quelle risorse e quelle forze producano un sovrappiù. Da qui il paradosso che, per perseguire un ulteriore arricchimento si determini l’impoverimento della società Le numerose citazioni dei testi di Marx e di Keynes, riprese nell’esposizione, convergono nell’individuazione di questa dinamica contraddittoria. Ma proprio la consapevolezza di questo paradosso è ciò che è andato smarrito all’emergere della crisi a fine anni settanta del secolo scorso.
Glosse (auto)critiche
Indubbiamente la ricostruzione del problema che si è presentato a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta contenuta nel terzo capitolo, anche a distanza di quarant’anni, appare quanto mai puntuale e tuttora valida. Eppure, qualcosa di essenziale ancora mancava. Di che cosa si tratta? Per individuarlo possiamo far riferimento ad una distinzione formulata nel Trattato dell’argomentazione di Chaim Perelaman e Lucie Olbrechts‐Tyteca.
Il testo era senz’altro persuasivo per quell’esigua minoranza che era già concentrato sul problema di comprendere le ragioni della crisi, ma non era affatto convincente, cioè in grado di coinvolgere anche coloro che fino a quel momento erano rimasti indifferenti nei suoi confronti o pensavano di poterlo risolvere senza cambiamenti radicali. Il livello al quale l’argomentazione si svolgeva non conteneva cioè alcun approfondimento di come lo stesso senso comune prevalente nella società ‐ che si esauriva nell’opposizione tra una ripresa del liberismo e una riedizione del keynesismo ‐ fosse l’elemento che determinava la crisi che cominciava a travolgerci.
La maggior parte delle persone ha solo un’idea astratta della natura storica dei propri rapporti sociali, e quindi “naturalizza” le conquiste passate e recenti come espressione del normale modo di essere umani. Così tende però a far scomparire il ruolo positivo delle conquiste appena effettuate, ma soprattutto ad ignorare l’ostacolo che esse frappongono all’ulteriore sviluppo, quando quel modo di vita ha estrinsecato tutte le sue potenzialità.
Questo aspetto essenziale del problema rimaneva sempre implicito, sfociando in un approccio metodologico che svuotava l’argomentazione della sua presa sul lettore. La formulazione prevalentemente economicistica della questione faceva cioè sentire il lettore libero, appunto perché essa era inerente ad un qualcosa che poteva restare esteriore, in quanto non investiva direttamente la sua stessa esistenza, ma era di competenza della sfera nella quale scienziati del sociale e politici svolgevano la propria azione.
Ma la riproduzione dei rapporti capitalistici non ha questa natura esteriore, cioè non è appannaggio dei soli capitalisti. Come spiega acutamente Marx nel primo volume dei Grundrisse (pp.292‐295), paragonando il salariato ad Esaù, il soggetto che proietta il potere di usare la sua forza lavoro nel capitale agisce come un elemento del capitale, e la sua pretesa di essere al di fuori del processo al quale partecipa, che secondo la sua percezione si limiterebbe a subire, è priva di fondamento.
Ultima modifica: 20 Settembre 2023