Ambivalenza dell’indifferenza
(e spiegazione del perché non può costituire
la base di rapporti superiori)
A mio avviso, se storicamente è giusto fare l’elogio della conquista dell’indifferenza, bisogna però anche riconoscere i limiti di questo particolare orientamento sociale, criticandolo. Prima di affrontare la questione sul piano economico, mi sembra utile svolgere qualche breve considerazione generale.
1. Ciò che caratterizza la “natura” degli esseri umani è la loro sensibilità, cioè la capacità di percepire le differenze, i mutamenti, elaborandone il significato come elemento che condiziona il loro stesso orientamento attivo. Se dovesse diventare un principio di orientamento generale, l’indifferenza sfocerebbe dunque in un disastro epocale (come forse sta cominciando ad accadere), perché in qualche modo comporterebbe l’inibizione delle facoltà che ci caratterizzano come specie (i last minute non rappresentano forse l’indifferenza nei confronti della specifica destinazione?). D’altronde, la paura istintiva degli altri, che impediva l’instaurarsi dell’indifferenza, e che era caratteristica dei nostri confratelli più arcaici, non era arbitraria, visto che la cosiddetta civiltà, con lo sviluppo di un’embrionale capacità di controllare gli istinti era ancora al di là da venire.
2. Il concetto stesso di ricchezza è il sottoprodotto di una lunga evoluzione nella quale la capacità di distinguere il modo in cui gli elementi naturali e quelli derivanti dall’attività produttiva, potevano o non potevano consentire la riproduzione ha giocato un ruolo essenziale. D’altra parte, la stessa cooperazione presupponeva la capacità di distinguere tra gli esseri umani in formazione quelli che erano giunti al livello di sviluppo che contemplava un approccio indifferente, che consentiva loro di “commerciare” i loro prodotti, da coloro che ancora non avevano sviluppato questa capacità (come hanno dolorosamente appreso centinaia di migliaia di partecipanti alle prime forme di commercio, che sono stati massacrati).
3. Senza farla troppo lunga l’indifferenza contiene, dunque, un pericolo del quale occorre tenere ben conto, riconoscendo la sua ambivalenza.
4. Ma veniamo alle argomentazioni di Mauro. La rappresentazione che dà del mercato, all’inizio del suo scritto, è assolutamente fuorviante. Quello che lui descrive come un presupposto organizzativo è, invece, un tardo e contraddittorio risultato dello svolgimento dei rapporti mercantili. Innanzi tutto, non è vero che nelle fiere “ci fosse la simultanea presenza di tutti i possibili compratori e venditori”, per due ragioni molto semplici: a) i prodotti, ancora artigianali, avevano ognuno caratteristiche profondamente diverse, e quindi il prezzo contava solo per una parte molto marginale della contrattazione; b) i mercati avevano natura ancora sporadica, e dunque accoglievano di volta in volta produttori e acquirenti diversi, che scambiavano solo marginalmente, cosicché il prezzo non era un dato, bensì una grandezza che si formava nella contrattazione personale. In aggiunta, non era affatto vero che compere e vendite fossero completamente libere, perché sussisteva una moltitudine di vincoli che limitavano la decisione personale (i cibi, il colore delle stoffe, le armi, i prodotti della cultura religiosa, gli stessi libri circolavano spesso solo clandestinamente, ecc.). D’altra parte, si possono trattare i potenziali acquirenti e i potenziali venditori come indifferenti, cioè come tutti uguali, ma, come scoprirà ben presto lo stesso capitale, non lo sono. (Tant’è vero che i mercati sono poi stati segmentati per target.)
5. Non è vero che sul mercato “si agiva come se si scambiassero merci in modo virtuale”. Questa tesi, per cui gli scambi si concordano prima a tavolino (Walras) per poi attuarli nella prassi, serve agli economisti conservatori per sostenere quello che è stato ampiamente confutato anche dai semplici pragmatisti: la finzione che gli individui sappiano anticipatamente quello che succede sul mercato in relazione a ciò che li interessa è, appunto, una finzione. Tant’è vero che il prezzo del mercato si scosta sistematicamente dal prezzo di equilibrio, cosicché l’incontro tra domanda e offerta è sempre problematico. (Per questo Marx può sostenere che il rapporti di valore si afferma solo attraverso la serie delle oscillazioni del prezzo, cioè “attraverso una continua differenziazione”. Grundrisse I, 71.) Se le cose stessero nel modo indicato da Mauro, la tesi di Marx secondo la quale gli individui che praticano il mercato sono preda di forze che non conoscono e non controllano sarebbe sbagliata, mentre avrebbero ragione gli economisti conservatori che sostengono che sanno tutto quello che si può razionalmente sapere.
6. Al di là di tutto ciò, è vero che attraverso lo sviluppo del rapporto di scambio gli esseri umani hanno imparato a cooperare anche con estranei, praticando positivamente un’indifferenza reciproca nei confronti delle loro forme di vita, ché se avessero cercato di mettersi prima d’accordo su questa, sarebbero stati bloccati da immani difficoltà. Questa cooperazione li ha indubbiamente cambiati, rendendoli cosmopoliti, senza che lo volessero. Qui bisogna aver chiaro il punto di partenza. L’indifferenza è positiva perché corrisponde alla repressione delle forze – diffidenza, paura, conflitto, spinta alla prevaricazione, ecc. – che precedentemente occupavano lo spazio potenzialmente cooperativo che si presentava nella vita dei nostri lontani antenati. Può però darsi che nello sviluppo di questa repressione alcune religioni abbiano inciso tanto quanto il rapporto di scambio nel creare le condizioni di una limitata cooperazione. Ovviamente per convenire su questa affermazione si deve credere che le idee siano essere stesse forze produttive o ostacoli nello sviluppo dell’umanità e, soprattutto, che le pratiche corrispondenti siano modi di ordinare il mondo. Da questo punto di vista è probabile che la cosiddetta evangelizzazione originaria abbia contribuito alla trasformazione dell’umanità in misura non meno significativa dell’espansione dei rapporti di scambio.
7. La sequenza con la quale Mauro cerca di far scaturire tutta una serie di relazioni umane dall’indifferenza connessa allo scambio non mi sembra affatto condivisibile. Primo, non concordo affatto sulla separazione dello spazio sociale tra una “sfera economica, nella quale si affronterebbe la questione del condizionamento, procedendo sulla base della necessità” e una sfera nella quale si procederebbe senza condizionamenti (definendo ciò come “libertà”). Questa opposizione tra necessità e libertà non mi convince e l’ho ampiamente criticata in molti passaggi dei miei libri. La libertà sta innanzi tutto nel saper gestire coerentemente la necessità (tesi che Marx avanza sia nell’Ideologia, che nel III Libro del Capitale). Ma pensare che la necessità possa essere coerentemente gestita nella forma del mero scambio di merci, mi pare decisamente avventato. E in contrasto con la storia degli ultimi due secoli, nel corso dei quali ripetute crisi hanno radicalmente sconvolto la società in tutte le sue manifestazioni. Tra l’altro immaginare che l’amicizia sia un sentimento libero, significa non riconoscere molte delle forze che sottostanno all’emergere degli affetti. Nella realtà l’amicizia, come l’amore, ha come presupposto la convinzione dell’unicità della persona che sollecita in noi quell’affetto. Non si potrebbe mai essere amici di “uno qualsiasi”. L’indifferenza ti “libera” dai precedenti vincoli, ma non crea le condizioni positive affinché tu possa passare ad un rapporto che richiede lo sviluppo di specifiche capacità positive (non a caso l’amicizia è un rapporto che sta praticamente scomparendo). Insomma a me sembra che la questione sia molto più complessa di come Mauro la ricostruisce, e che il suo errore sia collegato al tentativo di trovare un legame immediato tra ciò di cui vuol fare l’elogio (ma siamo sicuri che non sia un’apologia?) e l’evoluzione più generale delle capacità umane.
8. Là dove, a pag. 2, Mauro si spinge fino al punto di sostenere che nei rapporti capitalistici si procede a “scambiarsi i frutti del proprio lavoro, prescindendo da qualunque legame sociale”, mi sembra che mutui la convinzione dei Friedman. Il rapporto di scambio è infatti, a suo volta, una forma del legame sociale, anche se è vero che si accompagna contraddittoriamente alla negazione, da parte dei soggetti che lo praticano, del suo essere tale. D’altra parte la stessa indifferenza non corrisponde affatto ad un non affetto, ma allo specifico affetto dell’assenza di affetti (Agnes Heller, Sociologia della vita quotidiana), cioè non è una non relazione, ma una forma specifica di relazione, né più e né meno di come il silenzio non è l’assenza di comunicazione, bensì una forma di comunicazione. (Vedi il par. L’impossibilità di non-comunicare, in Watzlawick ed altri Pragmatica della comunicazione umana pagg.41 e seg.)
9. Un altro elemento di dissenso è la critica rivolta ad Engels e a Marx per la loro ipotesi che, con ogni probabilità, il superamento dei rapporti borghesi avrebbe comportato uno scontro violento. Qui si vede la conseguenza di fraintendere il ruolo dell’indifferenza. Sembra infatti che il capitalismo non rappresenti una forma di vita, proprio perché al suo interno i rapporti si baserebbero sull’indifferenza reciproca e cioè su un’irrilevanza delle forme. Ma se, come credo, ci troviamo invece di fronte ad una specifica forma dell’organizzazione sociale e dell’individualità, che fa dell’indifferenza alle forme un valore, è inevitabile che il suo tramonto passi attraverso contrasti e conflitti, e chi è depositario di un potere in dissoluzione combatta per conservarlo, perché per lui rappresenta la libertà.
10. Trovo decisamente ingenua la descrizione che Mauro fa del processo di transizione là dove sostiene: “Questo superamento del capitalismo sarebbe consistito nell’accesso ai mezzi di produzione e al credito da parte dei proletari, che avrebbero così potuto liberarsi dalla condizione di merce della loro forza lavoro e scambiarsi tra loro i prodotti senza la mediazione del capitale”. Ma per Marx la mediazione del capitale è superiore rispetto al semplice scambio di merci appunto perché organizza l’offerta e la domanda al fine dell’accumulazione. La semplice produzione di merci manca di questo principio organizzativo, cosicché la produzione autonoma di coloro che procedono allo scambio non giunge mai ad un grado di socializzazione adeguato a creare un sistema universale. Solo gli economisti ortodossi possono fantasticare di un mondo universalmente basato sullo scambio semplice come risultato di un processo di sviluppo spontaneo. Il problema che si pone nella transizione è dunque: se si toglie la mediazione del capitale, con quale altra mediazione la si sostituirà ?
Da come Mauro procede nella descrizione sembra che la mediazione del capitale venga sostituita regressivamente da quella del mercato. Tuttavia, siccome i lavoratori non producono come produttori autonomi, si dovrebbe partire almeno dalle strutture produttive che sono state create nella fase del dominio del capitale. Vale a dire che gli operai dovrebbero comunque organizzarsi in nuclei decisionali che, partendo dalle strutture nelle quali operano, indirizzano la loro produzione. Ma chi decide in che rapporto quella particolare attività deve trovarsi con il resto dell’attività, svolta dagli altri centri produttivi? Che Mauro ne sia consapevole o meno, ciò corrisponderebbe proprio a ripercorrere la fase iniziale della rivoluzione sovietica, nel corso della quale il contrasto era se sarebbero bastati i soviet, o se invece ci si dovesse organizzare la produzione su una base più universalistica di natura politica. Com’è noto in un primo momento vinse l’ipotesi che i soviet bastassero, ma nel giro di qualche anno ci si rese conto che sussistevano troppi elementi contraddittori e, dopo passaggi che qui non vale la pena di approfondire, si arrivò ai Piani pluriennali, con uno spostamento della mediazione ad un livello politico. Sappiamo che anche questa strada generò problemi irrisolti che, nel lungo periodo, determinarono un disastro. Ma il problema non può essere risolto togliendo di mezzo la questione.
11. Mauro si toglie di mezzo il problema con formule generiche che non dicono niente. Dice, ad esempio, che a garantire il passaggio alla fase “comunista” sarebbero i “produttori liberamente associati”. Ma quale sarebbe la forma di questa associazione? La formula “liberamente” non contiene in sé alcun riferimento concreto alla struttura organizzativa sottostante. Com’è noto il problema si pose fin dai tempi della Comune di Parigi (1871), ma non ha ancora trovato un’impostazione coerente.
12. La maggior parte delle riflessioni sull’evoluzione della spinta verso il socialismo e il comunismo sembrano una parodia degli eventi. Non nel sistema di Marx, ma in quello dei socialisti “borghesi” lo scambio è un rapporto da conservare! (Manifesto) Non nel sistema di Marx lo stato rappresenta una mediazione da evitare anche nella lunga fase di transizione al di là del capitale, ma nel sistema degli anarchici, che egli combatte! Ma anche la descrizione dello Stato sociale keynesiano sembra parodiata. Il sistema dei diritti è la forma – non mercantile – di individuazione dei bisogni primari che debbono essere soddisfatti col lavoro comune, che li garantisce come diritti sociali. Il sistema dei diritti si è notoriamente imposto per una fase storica trentennale. Poi è subentrata la crisi dello Stato sociale. Quel sistema rifletteva l’orientamento della massa della popolazione, e le eventuali discrezionalità hanno costituito solo una parte secondaria dell’insieme. Tra l’altro va ricordato che, proprio perché non erano in grado di comprendere la crisi, gli stessi lavoratori procedevano spesso attraverso la richiesta di comportamenti “discrezionali”, come il tenere in piedi aziende decotte e senza mercato per garantire il loro lavoro, appunto perché concepivano lo stato come un’entità sovrastante capace di far valere immediatamente un potere “della volontà”. Imputare allo stato gli stessi limiti degli individui che lo compongono, immaginando che essi ne siano invece indenni, cosicché potrebbero già oggi dar vita ad un mondo alternativo saltando la mediazione dello stato, mi sembra una forzatura inaccettabile. Da qui il problema posto da Lenin in Stato e rivoluzione, della necessaria transizione attraverso un altro stato (che però, per ragioni tattiche si risolse, invece, nell’appoggio ai soviet). D’altra parte nell’approccio di Mauro c’è un errore logico evidente. Da un lato egli chiede ai lavoratori di pensare “che cosa produrre, quanto e come produrlo”, ma poi pretende che la struttura produttiva corrispondente prenda corpo attraverso l’indifferenza negli scambi. Ma l’indifferenza negli scambi comporta che la domanda segua l’offerta, e sia subordinata ad essa - perché altrimenti le scelte collettive dovrebbero precedere la produzione, riflettendosi poi necessariamente nell’andamento degli scambi (Marx nei Grundrisse I, pagg.116/117) .
13. Uno dei cavalli di battaglia della nostra riflessione, conquistata in anni di lavoro, riguarda la distinzione tra lo stato sociale bismarckiano e quello keynesiano. Nel primo, abbiamo più volte detto, la redistribuzione del reddito (sussidi di invalidità, sussidi pensionistici, di disoccupazione ecc.) svolgevano la funzione di garantire una riduzione della conflittualità sociale sotto la veste della solidarietà. Con Keynes le cose cambiano radicalmente. Lo stato interviene per usare le risorse disponibili, cioè produrre, e per coordinare il funzionamento del sistema in modo da garantire il pieno impiego. Questo passaggio, abbiamo ripetuto più volte, è allo stesso tempo conservativo e trasformativo. Vi allego un pezzo del testo su cui sto lavorando, scritto prima di ricevere l’appunto di Mauro. Fintanto che non intervengono fenomeni significativamente contraddittori, gli individui non sono normalmente sollecitati a reagire a questa subordinazione, perché considerano quelle forme di vita come espressione della loro individualità sociale. Ma quando sopravviene una catastrofe sociale, come quella che stiamo attraversando in questa fase storica, per non parlare di quelle ben più drammatiche del passato, tutto cambia e i più intraprendenti agiscono in modo da cercare di porre rimedio alla situazione che si è venuta ad instaurare. In merito occorre essere chiari: lo scopo degli individui è quello di riprodursi attraverso la forma di socialità che contraddistingue la loro esistenza. Ma normalmente ogni particolare modo di vita, per poter essere riprodotto deve affrontare e risolvere i problemi nuovi che il suo stesso sviluppo ha fatto emergere. La conservazione della vecchia forma di vita implica, pertanto, la soluzione di problemi prima inesistenti e, dunque, una maggiore o minore trasformazione della forma stessa delle relazioni che la contraddistinguono. Si pensi al modo chiaro in cui Keynes, nelle battute conclusive della Teoria generale, ha sottolineato l’esistenza di questo meccanismo evolutivo ambivalente, in relazione al costituirsi dello Stato sociale, sul quale ci soffermeremo più avanti. “L’ampliamento delle funzioni del governo, implicite nel compito di coordinare tra loro la propensione al consumo e la disponibilità all’investimento [dell’intera società], che ad un pubblicista del XIX secolo o a un finanziere americano contemporaneo, sembrerebbero un’intrusione nella sfera individuale, lo difendo, al contrario, come l’unico mezzo praticabile per evitare la distruzione delle forme economiche esistenti nella loro interezza, che come condizione per la riuscita del funzionamento dell’iniziativa individuale”. La conservazione dell’organismo, poiché sono cambiate le condizioni sulle quali la vita poggia, impone una trasformazione. Quando, finalmente, dopo la Seconda guerra mondiale, si giunge a dar retta a Keynes per quanto riguarda l’intervento dello stato, l’organismo ha, però, già percorso buon parte della strada. Ha, infatti, attuato radicali cambiamenti nella direzione della subordinazione del processo produttivo ad un controllo consapevole da parte dei soggetti, incidendo sugli stessi rapporti di mercato. Dire che con lo Stato sociale moderno “si lascia integro il capitalismo”, per me rappresenta un’inaccettabile forzatura. E, infatti, quando l’ho trovato sostenuto da Bevilacqua o da Burgio ho avanzato radicali critiche che considero tuttora valide.
14. Anche sul problema del lavoro salariato mi sembra che Mauro cada in un’eccessiva semplificazione. Crede forse che i produttori che ha in mente possano diventare cassieri di se stessi? E cioè che ognuno di loro venderà in proprio parte del prodotto? Se i centri di produzione continueranno – come credo inevitabile – ad essere collettivi, la partecipazione al prodotto assumerà necessariamente la forma del salario, qualunque nome si voglia attribuire a quella partecipazione al prodotto, anche se questa partecipazione non poggerà più sulla vendita della forza lavoro, ma su un’altra forma astrattamente anticipata dal concetto di “diritto al lavoro”. Quando Mauro afferma perentoriamente “percepire un salario significa anche delegare potere e responsabilità a qualcun altro, capitale o stato, illudendosi che questo possa e voglia preoccuparsi per lui, pensare per lui, decidere per lui ed operare nel suo interesse, come un padre”, salta a piè pari il problema di come interviene la partecipazione al prodotto di chi non si illude che altri facciano per lui, ma allo stesso tempo si trova in un rapporto strutturale con altri, per cui il suo pensiero, le sue decisioni, ecc. debbono integrarsi coerentemente con quelle di questi altri, così come la sua partecipazione al prodotto non deve implicare forme di razionamento che farebbero costare la distribuzione del prodotto molto di più della sua stessa produzione.
15. La distorsione implicita nel modo di concepire lo stato da parte di Mauro è evidenziata dalle sue considerazioni riflessive, là dove rappresenta la compagnia di assicurazioni privata come un’entità superiore rispetto allo stesso stato. Ma nella realtà le “assicurazioni” che descrive risultano veramente efficaci economicamente e socialmente solo là dove, attraverso una decisione dello stato, il loro intervento ha assunto una valenza universale, proprio perché gli individui non sono stati lasciati liberi di decidere se assicurarsi o meno.
16. C’è un ultimo problema metodologico di cui mi sembra si debba tener conto. Mauro non tiene presente il nesso che lega necessariamente l’indifferenza insita nel rapporto di scambio alla forma astratta assunta dalla ricchezza. Fintanto che la ricchezza è astratta, cioè valore di scambio, è impossibile distinguere nella produzione complessiva il necessario dal superfluo. Per procedere in questa direzione occorre entrare nel merito delle forme di vita che lo scambio stesso contribuisce a mediare. Si può allora decidere di produrre un bene con non riproduce un valore dello stesso ammontare di altri perché gerarchicamente superiore rispetto a questi altri sul terreno del valore d’uso sociale. Quando dovrebbe allora intervenire il passaggio critico che descrive a pag. 5? Si tratterebbe soltanto del fatto che siccome c’è una massa enorme di merci in giro, le si comincia a distribuire con criteri diversi dall’equivalenza o le si regala, col reddito di cittadinanza? O la questione della transizione si pone ben prima del “diluvio di merci”, perché la sovrapproduzione, là dove domina l’indifferenza e il rapporto di scambio, si presenta sempre nella forma della crisi e dell’impoverimento di massa?
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