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Dalla seconda di copertina
Nessuno può oggi negare che la società stia attraversando una fase di estrema confusione. La crisi, che ormai si protrae da più di trent'anni, non trova un'interpretazione adeguata, e ogni intervento finisce col peggiorare il quadro economico e sociale. In questo breve saggio l'autore entra nel merito dei problemi che sono stati elusi in questa lunga fase, primo fra tutti la questione del perchè un deficit strutturale del Bilancio dello Stato è stato inevitabile.
La sua tesi è quella che quel deficit non è affatto, come si ripete in continuazione la manifestazione di una perversa insistenza dei progressisti a voler prelevare imposte crescenti, per continuare a finanziare una spesa pubblica che si dimostra sempre più improduttiva. E' piuttosto la conseguenza dell'accettazione, ad inizio anni Ottanta, del vincolo dell'impossibilità per lo stato di procedere sulla base keynesiana, che prevedeva l'acquisizione di una signoria sul denaro. Senza questa "signoria" la crisi è diventata ingovernabile, appunto perchè è stata preclusa la possibilità da parte della società di godere delle risorse eccedenti che sono state prodotte attraverso lo sviluppo capitalistico.
L'autore prende le mosse dall'ipotesi comune sia a Keynes che a Marx, che la crisi non sia la manifestazione di una mancanza di risorse, ma al contrario intervenga perchè gli esseri umani non sanno far tornare in circolo le abbondanti risorse scaturite dagli sviluppi precedenti. L'impoverimento si presenta così come un fenomeno prevalentemente soggettivo, di incapacità ad elaborare mediazioni sociali nuove, attraverso le quali soddisfare i bisogni e usare pienamente le straordinarie capacità produttive nel frattempo acquisite. Questa incapacità soggettiva si manifesta soprattutto nella mancata comprensione dei complessi menccanismi attraverso i quali ogni attività produttiva viene messa in moto.
L'analisi si conclude ricordando che Keynes aveva ampiamente previsto che, all'inizio del nuovo millennio, sarebbe emersa una difficoltà strutturale a riprodurre il rapporto di denaro e, con esso, del lavoro salariato, che ne è alla base. L'unico modo per uscire dal dilemma in cui siamo precipitati è, conseguentemente, quello di procedere ad una riduzione del tempo di lavoro, garantendo a tutti una partecipazione all'attività produttiva in cambio di una salario adeguato. Questo svolgimento presuppone però che gli individui non cerchino soluzioni belle e pronte da ingurgitare come pillole, ma accettino di intraprendere una trasformazione della propria individualità, lavorando a comprendere a che punto siamo della storia.
Dall'incipit
Nelle spasmodiche trattative per "salvare l'euro", a inizio 2012, è passata la proposta di inserire nelle Costituzioni dei singoli Stati il principio che i bilanci delle pubbliche amministrazioni, e in particolare quello dello stato, debbono essere sistematicamente in pareggio. Un obiettivo ritenuto taumaturgico, che anche Monti aveva vagheggiato nel suo programma "salvifico" e che il Parlamento italiano si è affrettato ad approvare definitivamente, primo in Europa, con una maggioranza ultraconformistica, senza rendersi conto del disastro che stava preparando.
Com'è stato egregiamente sottolineato da molti economisti conservatori, si tratta di un principio enunciato agli albori del pensiero economico classico, duecento anni fa, e che secondo loro sarebbe tutt'ora decisamente valido, perchè nessuno, nemmeno lo Stato, potrebbe spendere, oggi come ieri, "un denaro che non ha" senza causare effetti economici negativi.
Ma la questione è così banalmente univoca ?
Ultima modifica: 20 Settembre 2023