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Dieci brevi lezioni
di critica dell'economia politica
Giovanni Mazzetti
2019 - Asterios
La rivoluzione culturale per capire e affrontare la disoccupazione
Ma noi vi diciamo:
Quel che non è estraneo, trovatelo strano.
Quel ch’è abituale, trovatelo inspiegabile.
Quel che è consueto, vi stupisca.
Quel ch’è la regola, vi sembri un abuso, e dove avete riscontrato l’abuso ponete rimedio.
B. Brecht
“Quando la vita ci propone un problema l’attacchiamo in conformità di un codice di regole [oggi si direbbe un algoritmo] che nel passato ci ha reso possibile affrontare problemi analoghi. … Quando lo stesso compito si presenta in condizioni relativamente immutate in un ambiente monotono, le risposte saranno stereotipate, … governate da abitudini fisse, le cui azioni e idee seguono sempre gli stessi solchi. …
Ma sia nella vita che in laboratorio, la novità può arrivare ad un punto in cui la situazione somiglia ancora sotto certi aspetti ad altre situazioni già incontrate, e tuttavia ha caratteristiche o complessità che rendono impossibile la soluzione del problema con le stesse regole del gioco applicate a quelle situazioni passate.
Quando ciò accade diciamo che la situazione è bloccata - sebbene sia possibile che il soggetto se ne renda conto [solo] dopo una serie di tentativi vani o non se ne renda conto mai [lasciando il problema irrisolto]”.
Arthur Koestler, L’atto della creazione,
Dalla Quarta di copertina
Quando in futuro si cercherà di dare un senso alla nostra epoca si dirà che è stata l’epoca del letargo sociale. Come molte specie animali che, di fronte alle difficoltà di vivere l’inverno, hanno elaborato un meccanismo difensivo di rifugio nell’inattività, così la nostra società, investita dall’inverno della crisi, si comporta come un orso addormentato nella sua tana. Sopravvive sonnecchiando e raschiando il fondo delle conquiste di cui ha goduto con lo stato sociale keynesiano. Ma il letargo non può essere infinito, pena la morte per inedia.
Il letargo non è scelto. Si tratta di uno stato nel quale si scivola progressivamente al crescere delle difficoltà riproduttive causate dal freddo. Così la società non ha scelto di sprofondare nel sonno, ma vi è precipitata per l’imporsi della sua stessa impotenza. I gradini di questa caduta sono noti: legge Anselmi (1977); legge Dini/Treu (1997); legge Biagi 2003; jobs act di Renzi (2014). Un susseguirsi d’iniziative che si sono risolte in drammatici fallimenti, in quanto rifiutavano di riconoscere che quello della disoccupazione di massa non era affatto un problema congiunturale, perché la difficoltà di riprodurre il lavoro stava diventando un problema strutturale. Se perfino la Banca Centrale Europea ha svelato, nel suo bollettino ufficiale, che si tende a nascondere la drammatica misura raggiunta dalla mancanza di lavoro, con una disoccupazione reale doppia di quella registrata ufficialmente, vuol dire non c’è più spazio per un’ulteriore rimozione.
Ma il sacrificio di due generazioni sarà sufficiente a risvegliare la società dal suo letargo? C’è qualche germoglio primaverile che possa finalmente sollecitare il senso comune a riaprire gli occhi e ad assumere su di sé il compito di comprendere che cosa sta succedendo? Nel testo l’autore tenta la difficile operazione di confrontarsi criticamente con la storia e con le interpretazioni della crisi che circolano attualmente nella società, per fornire la base del rivoluzionamento culturale di cui c’è urgente bisogno. Ciò che può scaturire solo da una serrata critica dell’approccio economico oggi prevalente.
La disoccupazione è l'effetto indesiderato di quell’insieme di decisioni e di pratiche attraverso le quali riproduciamo la nostra vita collettiva
La disoccupazione è, così, un fenomeno paradossale, che contrasta con le ragionevoli aspettative del senso comune, che non sa nulla della forma dei rapporti nei quali è immerso e, soprattutto, dei vincoli corrispondenti. Infatti, essa sopravviene nonostante ci sia una moltitudine di bisogni insoddisfatti e risorse disponibili per soddisfarli, e determina un impoverimento che deriva contraddittoriamente dall’imposizione del vincolo di arricchirsi ulteriormente, accumulando capitale. Il blocco nel quale incappano le imprese appare così inspiegabile, almeno fintanto che si resta alla superficie del fenomeno.
Non basta cioè dire che la spesa di capitale ostacola il rientro nel circolo produttivo della forza lavoro e delle risorse.
Si deve piuttosto spiegare nel concreto che cosa ciò significhi.
Il denaro è la manifestazione oggettiva di un lavoro svolto
La mancanza di soldi, infatti, lungi dal costituire un limitazione esteriore, alla quale sarebbe impossibile sottrarsi, costituisce l’effetto contraddittorio del comportamento dei soggetti economici, che si lamentano di una carenza di risorse solo perché non sanno come farle tornare in circolazione col normale comportamento di spesa prevalente.
I sostenitori del reddito di cittadinanza epigoni dei fautori delle cedole orario del tempo di Marx
Ben diversamente andrebbero le cose col riconoscimento del diritto ad un reddito di cittadinanza. Una proposta che ha cominciato a conquistar seguaci in parallelo al subentrare di una crescente disoccupazione strutturale. Con questo istituto si decide di svincolare il potere di appropriarsi di una parte della ricchezza complessiva, che si presenta nella forma del denaro, dall’attività dalla quale essa scaturisce. L’ingenuità dei sostenitori delle cedole orario, secondo i quali tutti i prodotti dovevano presentarsi immediatamente come denaro, viene qui portata alle estreme conseguenze, e cioè ogni individuo dovrebbe disporre di un potere in denaro in quanto individuo, a prescindere dai nessi col processo produttivo che ha instaurato o instaura.
Ma in tal modo si crede di potersi insignorire del denaro immediatamente come cosa, nella quale sarebbe alchimisticamente depositato il potere di garantire di per sé “una vita confortevole”, pensando che tutto il resto procederebbe fisiologicamente grazie a questo cambiamento marginale in uno dei momenti che, nel loro insieme, determinano la riproduzione del sistema economico o il suo fallimento.
Ci troveremmo dunque in un mondo in cui il denaro figlia denaro senza l’intermediazione di alcun atto produttivo, con i soldi che costituirebbero in forma immediata i beni dei quali avremmo bisogno per vivere o, in subordine, che garantirebbero la sopravvivenza di quelli che si presenterebbero come veri e propri schiavi economici. In altri termini: ci copriremmo dal freddo con le banconote, mangeremmo monete e useremmo i biglietti di banca come tappeto volante per spostarci! O un’esigua minoranza potrà trattare il resto della società come facevano i pascià del passato vivendo parassitariamente sul lavoro dei loro sudditi.
Il diritto al lavoro è, nel senso borghese, un controsenso, un meschino pio desiderio
Se si considera arbitrario che ci sia qualcun altro che guadagni su ogni nostro “mi piace, chat, tag o poke”, e sulle altre forme di interazione digitale, non si bilancia l’arbitrio sostenendo: “ci vogliamo guadagnare anche noi”. Si deve piuttosto affrontare il problema della possibilità di appropriarsi diversamente , come individui consapevoli delle forme della nostra socialità, di quelle condizioni materiali che consento-no quelle manifestazioni di vita, invece di esigere la partecipazione al bottino che scaturisce dal pagamento di una sorta di “pizzo” sul loro uso. L’escamotage delle imprese informatiche testimonia che le forze produttive sociali sono cresciute in misura tale che l’imporre un pagamento per il loro uso ne limiterebbe la metabolizzazione. Per questo si concede di usarle gratuitamente, accontentandosi di mettere un dazio – formalmente pagato dagli inserzionisti, ma poi riversato sui consumatori - sugli accessi ai risultati che crescono proprio perché gratuiti. Quando tutto ciò comincerà a essere evidente, bisognerà imparare a distinguere quelle pratiche che, secondo le indicazioni di Marx, si esauriscono in se stesse, perché non hanno altra finalità del soddisfare un bisogno immediato di chi le estrinseca, da quelle che svolgono un ruolo produttivo, in quanto soddisfano anche bisogni al-trui, con la conferma di questi altri.
... dalle Conclusioni ...
Ci sembra di poter finalmente rispondere al provocatorio quesito dal quale è partita la nostra riflessione: perché c’è un’elevata disoccupazione e perché essa permane irrisolta da più di un trentennio? C’è forse qualcuno o qualcosa che ruba il lavoro ai disoccupati?
Se il lettore ci ha seguito con attenzione non dovrebbe cadere nella trappola nella quale i nostri predecessori sono ricorrentemente caduti, continuando a cercare frettolosamente dei colpevoli per ogni evento negativo, senza tentare di comprendere ciò che lo causa. Come abbiamo visto, la mancanza di lavoro non è la conseguenza di un furto o di un altro comportamento deviante, ma un normale fenomeno evolutivo. Certo si tratta di qualcosa di inatteso, perché in contrasto con quanto, al di là delle crisi congiunturali, accadeva in passato; un passato che il senso comune tende a considerare come la sola prassi fisiologica del sistema. Tuttavia, ragionando in un coerente rapporto con la ricostruzione storica che abbiamo sinteticamente operato, non possiamo non riconoscere che esso è la conseguenza dello sviluppo economico di cui abbiamo goduto.
Molto banalmente, corrisponde ad uno svolgimento contraddittorio del processo sociale che, come tutti i fenomeni contraddittori, evidenzia l’impossibilità di continuare a procedere con le modalità sociali che abbiamo imparato a considerare “naturali” e l’emergere della necessità di trasformare le relazioni produttive per godere di uno sviluppo su una nuova base sociale. Riassumiamo ciò che ostacola la presa d’atto di questo stato di cose.
E’ indubbio che le macchine sono chiamate a sostituire il lavoro umano. Il termine viene dal greco mechanà, e designa proprio ciò che potenzia o sostituisce una pratica o un processo, attraverso i quali si ottiene un determinato risultato utile. Ma questa definizione si riferisce solo al fatto in sé, cioè astrae dalla prassi che sollecita e media la sostituzione. Rappresenta il fatto senza entrare nel suo significato.
E’ come se ci si trovasse di fronte ad un passaggio di moneta da una mano all’altra, ma si decidesse che non occorre capire ciò che sottostà ad esso: un regolare scambio di merci? Una corruzione? Un regalo? Una pensione o un’indennità di disoccupazione? Quando interviene il passaggio, e lo si fotografa, non si sa ancora nulla della natura di ciò che accade.
Per sapere bisogna indagare sul perché esso è intervenuto, e cioè che cosa gli individui che lo attuavano stavano facendo per se stessi, o almeno quello che credevano di fare. Quando prende corpo questo per sé, e cioè ci si focalizza sulla mediazione attraverso la quale la pratica dell’introduzione delle macchine viene attuata, ci troviamo di fronte a due forme d’esperienza che si strutturano come opposti. Da un lato, coloro che naturalizzano il modo di produrre e di vivere oggi prevalente, sostengono che ciò sarebbe un bene, un fenomeno solo positivo, perché in quel modo si realizzerebbe lo sviluppo, attraverso la creazione delle condizioni materiali e culturali che consentirebbero di riprodurre altro e più lavoro, per soddisfare altri e più bisogni. Essi traggono la loro esperienza dal passato, visto che così è stato fino all’altro ieri, cioè fino all’affermarsi del keynesismo. Dall’altro lato, ci sono coloro che credono invece che sia un male, perché la contrazione del lavoro, lungi dal determinare una compensazione o un suo successivo aumento, come avveniva in passato, si risolve in se stessa, e sfocia in un impoverimento generalizzato. Indubbiamente questi ultimi colgono bene il lato negativo della situazione che si è instaurata nella fase storica recente. Ma lo fanno restando, al pari dei primi, che non concepiscono possibili alternative, intrappolati in essa. Scompare, così, l’elemento energetico che, eventualmente, permetterebbe di confrontarsi con la difficoltà emersa, ponendola come un problema, invece che come un mero fatto da contrastare.
Perché ciò accade?
Non sapendo “togliere” la situazione in cui si trovano, e cioè ritenendo che la società possa riprodursi unicamente attraverso i rapporti che la caratterizzano, non riescono a sperimentare quel negativo per ciò che è, e cioè come una contraddizione, come un evento che spinge per il superamento del comportamento sociale che lo ha involontariamente prodotto. Lo imputano così ad una volontà altrui di determinare, contro la parte di società con la quale si schierano, il male corrispondente. Conseguentemente, riescono solo a concepire un comportamento che annulli quel fenomeno negativo di cui soffrono, e ristabilisca la dinamica preesistente al suo sopravvenire. Il mondo si presenta così in forma puramente oggettiva, immanente, ed essi non sperimentano alcuna necessità di trasformarlo per soddisfare i loro bisogni in corrispondenza delle nuove condizioni che si sono instaurate. Il lavoratore salariato che non concepisce altra possibilità che il continuare ad essere un salariato, così come il produttore autonomo di merci che non sa far altro che produrre merci, si batteranno affinché si riproduca il loro lavoro – che fino a ieri era normale svolgere - in modo da poter continuare ad esistere come hanno imparato a fare, affidandosi alle stesse forme del potere sociale che sono sfociate nella contraddizione.
E’ proprio riferendosi a questo comportamento che Marx definisce la rivendicazione di un “diritto al lavoro”, che non si accompagni alla comprensione delle dinamiche sottostanti alla mancata riproduzione del lavoro, come una sorta di preghiera laica, un “pio desiderio”. Infatti, la passività non si trasforma in tal modo in passione, cioè in una forza capace di tendere positivamente all’oggetto del suo bisogno, perché il rapporto con la negazione non conquista una forma dialettica – creativa - che è indispensabile per cogliere la realtà umana “nel fluire del movimento”, visto che “la società non è un solido cristallo, ma un organismo capace di trasformarsi e in costante processo di trasformazione”. Il negativo sperimentato solo in sé è, infatti, il nulla – ciò che non deve esserci - e può così accompagnarsi alle più fantasiose interpretazioni del suo verificarsi e dei modi in cui annullarlo. Mentre il negativo colto per sé corrisponde alla sollecitazione ad un cambiamento, determinato dal fatto che il contesto è diventato diverso da quello che aveva favorito il prender corpo dei rapporti che hanno subito la contraddizione. Si tratta poi di verificare se quel cambiamento corrisponde alla scomparsa delle condizioni preesistenti, con l’inevitabile sopravvenire di un regresso, o alla rottura rispetto a quel-le condizioni, in conseguenza di uno sviluppo che deve ancora trovare la sua sistemazione sociale.
Per comprenderci con un’analogia.
Questo comportamento somiglia a quello di due coniugi dei nostri tempi che, essendo ferventemente credenti, considerano il loro matrimonio come un sacramento, cioè come un rapporto codificato e suggellato da dio, e come tale indissolubile, in quanto scaturente da regole e poteri sovrastanti. Se scopriranno di non riuscire ad interagire positivamente, e non sapranno mettere in discussione quella che è stata la base culturale della loro unione, trasformando il legame in un rapporto umano, comprensibile nelle sue dinamiche e come tale anche solubile, finiranno intrappolati in un’infinità di conflitti irrisolvibili. In alternativa, vivranno una relazione che si trascina tra continue mistificazioni, come noi stiamo facendo sul piano sociale, nascondendo la disoccupazione dietro rilevazioni statistiche evidentemente fasulle, ed evocando continuamente la crescita come feticcio in grado di “salvarci”.
Non dobbiamo dunque cercare dei ladri o dei furfanti egoisti da incolpare, perché non ci sono.
Dobbiamo piuttosto confrontarci col problema della nostra incapacità di comprendere e metabolizzare produttivamente i cambiamenti determinati dal nostro stesso sviluppo, per il solo fatto che essi si presentano come uno svolgimento contraddittorio. Un effetto che non è nemmeno perseguito intenzionalmente da chi introduce le nuove tecnologie, i cosiddetti padroni, perché questi, schierati sul lato positivo dell’opposizione, sono convinti che ci sia sempre la possibilità di tornare ben presto ad impiegare in altri compiti il lavoro risparmiato – perché considerano gli individui nient’altro che come lavoratori salariati - anche se loro individualmente non lo fanno. Né più e né meno di come chi usa l’automobile non vuole inquinare, ma produce, spesso inconsapevolmente, proprio quell’effetto indesiderato, perché non sa come fare a meno dell’auto. Ed è convinto di non arrecare, col suo modo di agire, alcun danno strutturale all’ambiente, perché prima o poi un rimedio qualcun altro lo troverà.
Ultima modifica: 20 Settembre 2023