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Quaderni di Formazione online
Presentazione
Ricordo ancora quando, a inizio anni sessanta, lavoravo all’ambasciata americana, prima di entrare all’università, le persone più anziane mi mettevano in guardia perché, nonostante lo stipendio molto alto rispetto agli standard italiani dell’epoca, gli accantonamenti previdenziali erano irrisori. Rispondevo allora che contava poco perché quando sarei diventato vecchio il problema delle pensioni sarebbe stato risolto in maniera molto diversa dal loro modo di pensare. La riforma pensionistica del 1969 andava proprio nella direzione che avevo sperato, ridimensionando grandemente il nesso tra contributi e pensione, e creando un quadro positivo per tutti gli altri aspetti dell’accesso alla fase della vita post-lavorativa. Forse per questo in tutta la prima parte della mia vita universitaria ho sempre snobbato qualsiasi riflessione sulla questione previdenziale. La consideravo come un qualcosa di pertinenza dei contabili, privo di qualsiasi interesse sociale. Come tutti davano per scontato il pieno impiego sostanzialmente raggiunto, io davo per contato che la nuova previdenza avrebbe solo potuto consolidarsi ed estendersi.
Quando, a partire dagli anni novanta, il sistema pensionistico cominciò ad essere al centro di forti contese da parte dei conservatori in ascesa, sentii il dovere di prestare maggiore attenzione al problema. In un primo pamphlet sottolineai che tutte le argomentazioni dirette ad esigere una “riforma” erano in realtà finalizzate ad una Controriforma delle pensioni (Datanews). Si cercava cioè di smantellare le conquiste dei lavoratori, sostenendo che non fossero economicamente sostenibili. Abbozzai una prima critica di questa tesi, argomentando che se nell’ottica economica dei neoliberisti il quadro appariva in questi termini, tuttavia si trattava di un sapere economico ereditato da un mondo ormai tramontato, che si trovava in totale contraddizione con la nuova situazione economico sociale e con le conquiste che avevano fatto uscire il nostro paese dalla miseria che l’aveva afflitto.
Nel decennio successivo ci fu una vera e propria pioggia di libri e di articoli tesi a spingere la controriforma pensionistica fino alle sue estreme conseguenze. In risposta a queste aggressioni culturali pensai di poter lanciare una sfida al senso comune conservatore, che tendeva ormai a prevalere, con Il pensionato furioso (Bollati Boringhieri). Ma il momento favorevole era ormai trascorso e l’arroganza della controparte si manifestò con il silenzio degli autori chiamati in causa (Rampini, Amato, Boeri, Cazzola, ecc.) e con la censura di una recensione del testo preparata da Luigi Cavallaro per lavoce.info. La sfida conteneva gli elementi per dimostrare che tutti gli argomenti con i quali si cercava di tornare alle forme pensionistiche del passato erano insostenibili, perché privi di qualsiasi fondamento economico razionale.
Quando nel dicembre 2011, il governo Monti assestò l’ultimo colpo al sistema pensionistico del 1969, con la cosiddetta “riforma” Fornero, decisi di tornare sull’argomento in modo più approfondito con Dare di più ai padri per far avere di più ai figli (Asterios). Qui le argomentazioni che nella “sfida” erano state svolte in forma polemica e sintetica, furono approfondite in forma analitica. In 324 pagine spiegai perché quel provvedimento era economicamente sbagliato ed avrebbe solo contribuito a far trascinare il ristagno conseguente alla crisi illimitatamente.
Ci si potrebbe chiedere che cosa centri la questione pensionistica con la redistribuzione del lavoro. Ma il problema della riconquista del tempo reso disponibile dall’aumento della produttività ha due risvolti. Uno è quello relativo alla durata della giornata e della settimana lavorativa. L’altro è quello della durata del periodo di lavoro nel corso della vita. Ed entrambi giocano un ruolo essenziale nella risposta alla contraddizione che scaturisce dalla crescente difficoltà di riprodurre il lavoro salariato.
Nel riproporre alla lettura Il pensionato furioso, c’è un solo rammarico. In Italia ci sono più di venti milioni di pensionati che da decenni stanno subendo un regresso sociale del tutto ingiustificato sul piano della disponibilità delle risorse e delle capacità produttive del paese. Regresso nel quale vengono trascinati anche i loro figli e i loro nipoti. Perché il loro tempo di non lavoro non si trasforma in una forza culturale capace di opporsi a quanto sta succedendo? Non basta richiamare nostalgicamente le manifestazioni oceaniche del passato. Se la dinamica sociale è andata in tutt’altra direzione è stato perché quei pensionati hanno immaginato di opporsi dalla deriva con la sola lotta sul piano politico. Ma se ciò fosse bastato non avrei avuto alcun bisogno di scrivere dei libri per cercare di contribuire a contrastare il regresso a forme paleosociali di previdenza. Sarebbe stato sufficiente partecipare, come ho fatto, a quelle manifestazioni, trovando la conferma immediata dell’esistenza di una forza alternativa. Ma dietro alle conquiste attuate in passato, inclusa la riforma Brodolini, c’era una cultura ancora in formazione. Il non averla sostenuta e fatta crescere ci chiama in causa come corresponsabili del disastro sociale del quale stiamo soffrendo.
Ultima modifica: 20 Settembre 2023