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Quaderni di Formazione online

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Oltre la crisi del Comunismo

 

 

 

GIOVANNI MAZZETTI

Quanti sono interessati ad approfondire i problemi contenuti nei testi di volta in volta proposti possono farlo scrivendo a bmazz@tin.it.

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Presentazione

Quando, sul finire degli anni ottanta, la crisi del movimento comunista divenne palese, il gruppo di studio che poi si sarebbe trasformato nell’Associazione per la Redistribuzione del Lavoro decise di confrontarsi criticamente con quanto stava succedendo. Ne scaturì un testo, poi pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1993, col titolo Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario.

In quella ricerca si approfondirono le ragioni della crisi, cioè il processo negativo che era sfociato nella dissoluzione di quel movimento.  Ma si gettarono anche le basi per avviare una riflessione su quello che avrebbe potuto essere il processo positivo in grado di garantire il superamento della crisi.  Una riflessione che ovviamente richiese molti anni di lavoro.

Riproponiamo qui, con aggiustamenti marginali, l’introduzione a quel testo, come preambolo alla prossima pubblicazione a puntate, nei prossimi quaderni, di un testo non ancora stampato, intitolato Alla scoperta della libertà che manca.  Una bussola per orientarsi nella crisi e dar vita ad una politica alternativa.

Crediamo che quest’ultimo lavoro contenga un coerente svolgimento del progetto che ci eravamo dati nell’ormai lontano 1993, anche se le condizioni affinché esso trovi una rispondenza nella cultura contemporanea – anche in quella critica – sembrano ancora mancare.

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L'educazione all'agire comunitario

La catastrofe che si è consumata dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che vi era qualcosa, nel comportamento dei comunisti italiani, che – nonostante il loro innegabile approccio critico, assente in altri contesti - non rispondeva affatto all'idea che essi si erano formati su se stessi; che la loro diversità si era infine articolata in maniera prevalentemente fantastica, mentre nella realtà essi condividevano sempre più modalità dell'esperienza e pratiche sociali che costituivano l'espressione essenziale di quel modo di vita che pretendevano di superare. La loro determinata critica delle forme sociali dominanti - come d'altra parte era stato ipotizzato dallo stesso Marx nei confronti di precedenti tentativi - aveva finito con il costituire un'espressione immediata di quegli stessi legami, che pure credeva di trascendere.

Restando impigliata in quella sensibilità teorico-pratica, l'iniziativa dei comunisti ha assunto una forma astrattamente dogmatica e, per non riconoscere l'intrico che produceva, è stata costretta ad involarsi nell'idealismo, mentre il suo fondamento materiale restava - contraddittoriamente – la struttura dei rapporti privati.

Ora, la base pratica coerente dell'agire comunitario, come nuova via di ricerca della comunità, sta proprio nel riconoscimento e nell'accettazione di questo dato di fatto negativo. Esso procede dalla convinzione che la. ragione del fallimento del primo tentativo di muovere verso la comunità vada ricercata nella sostanziale assenza di un lavoro su se stessi, nella mancanza di un processo di autotrasformazione, nell'aver dimenticato che non si può essere educatori senza conquistare la capacità di autoeducarsi, confrontandosi criticamente con la storia.

Ma il valore positivo della catastrofe sta proprio nell'aver reso palese questa realtà, nell' aver messo drammaticamente a nudo l'effettivo limite dei tentativi di trasformazione, nell'aver imposto il problema dell'autoeducazione come problema centrale e ineludibile. Uno dei più gravi ostacoli sulla via dello sviluppo è infatti rappresentato dal convincimento - largamente diffuso nella nostra epoca - che le limitazioni all'azione e alla soddisfazione siano sempre e soltanto esteriori, mentre le facoltà dell'individuo e la forma della sua sensibilità pratica non possano costituire a loro volta degli elementi di blocco.  Consentendo di accarezzare la fantasia che gli esseri umani siano naturalmente tessitori di relazioni sociali coerenti – cioè liberi - questa convinzione impedisce loro di imparare dagli errori che compiono.

Questo tipo di orientamento -  che poggia sul presupposto assiomatico della sovranità del singolo e del popolo di cui è parte - è la manifestazione più immediata di una particolare forma dell'individualità, che essendo arroccata nella conferma immediata di se stessa, nega nella pratica qualsiasi bisogno di autotrasformazione. Questo approccio egoistico - l'espressione è qui usata in termini strettamente analitici - mistifica sulla propria condizione, perché, ponendo la libertà come un dato, nega la libertà nella sua più concreta determinazione di compito. Presupponendo che gli uomini siano liberi «per natura», finisce col lasciarli macerare per tempi lunghissimi nelle loro difficoltà. L'agire comunitario rifugge da tutto ciò.  Esso fa proprio l’elemento più prezioso che scaturisce dalla recente catastrofe dei comunisti. Non si sottrae al riconoscimento del fatto che gli esseri umani non sono liberi, bensì muove dall'esplicita accettazione dell'esperienza che essi sono sempre e necessariamente legati, cosicché la conquista della libertà non è mai un dato, ma sempre e soltanto un problema. Esso procede dalla consapevolezza che ogni legame è una forza, ma anche che ogni forza umana prende inevitabilmente la forma di un legame, e contiene quindi in sé oggettivamente un limite. Che questi limiti esistono, al di là delle stesse convinzioni e percezioni dei soggetti che ne sono portatori, e si impongono come sofferenza e frustrazione nel momento in cui i singoli cercano di negarli arbitrariamente, affermando volontaristicamente l’esistenza di un loro potere, che sono ancora lontani dall'aver conquistato.

La convinzione, divenuta ormai fuorviante luogo comune, che una persona agisca in un modo dato perché ha deciso di agire in quella maniera appare all'orientamento comunitario maturo per quello che è: una chimera.

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Il bisogno di una nuova base

Qui sorge tuttavia un interrogativo essenziale, che non può essere

eluso se non si vuol tornare continuamente a ripercorrere la stessa via e ad incappare nei medesimi ostacoli. L'avvio di un'azione di trasformazione richiede la conquista di almeno un punto fermo d’appoggio dal quale procedere. Questo punto fermo, d'altra parte, non può essere «scelto» a piacere. Vale a dire che o si individua l'errore fondamentale, che ha così rovinosamente condizionato i primi tentativi di procedere consapevolmente su vasta scala verso la comunità, e da lì si parte per cercare di costruire una nuova strategia, o tanto vale rinunciare a priori.

Qualsiasi speranza di procedere per altra via risulterebbe infatti velleitaria, perché il fattore limitativo esistente continuerebbe ad operare, come già ha fatto fino ad ora, sotterraneamente.

Ma coloro che si muovono secondo questo orientamento critico sono in grado di attuare un simile passaggio? Sono capaci di focalizzare, tra i mille errori tattici compiuti, l'errore strategico, quello che sinteticamente raccoglie in sé l'essenza del disastro? La convinzione di chi scrive è che ciò sia possibile, e cioè che esista un modo per individuare il nocciolo degli errori che hanno progressivamente svuotato il progetto comunista della sua capacità trasformatrice. Le direttrici lungo le quali muoversi possono essere le seguenti.

Se anche in rapporto ai fenomeni di crisi del comunismo si parla così insistentemente di «fine delle ideologie», senza che una simile espressione suoni ridicola, è quasi certamente perché il comunismo, che è originariamente cresciuto come «critica dell'ideologia», ha lasciato rinsecchire le proprie radici ed ha infine assunto una forma realmente ideologica. Lungi dal riuscire a rapportarsi spassionatamente e criticamente alla propria azione trasformatrice, i comunisti hanno cioè finito con il crogiolarsi con una rappresentazione mitica di se stessi e delle proprie azioni, perdendo così la capacita di continuare a comprendere il mondo per trasformarlo in modo coerente con la dinamica in atto e con i loro bisogni. In pratica, dopo aver elaborato, come era in una prima fase giusto ed inevitabile, una strategia comunitaria interamente contenuta nella dimensione politica della socialità data, hanno finito ingenuamente con il comportarsi come se su quello stesso terreno fosse possibile giocare l'intera partita dell'affermarsi o meno della comunità. Si è così assurdamente assistito all'instaurarsi di un paradosso che qui possiamo riassumere nei seguenti termini. Mentre nella realtà economico-sociale dell'ultimo secolo e mezzo si susseguivano continue conferme pratiche, nei più disparati settori, della validità dei più elementari principi attorno ai quali era stata costruita la prima rozza formulazione del bisogno della comunità, cosicché la vita stessa diventava un gigantesco laboratorio per la sperimentazione quotidiana della necessità e della possibilità di questo nesso sociale, non si riusciva contemporaneamente a realizzare una base organizzativa coerente con questo sviluppo, che non poteva pertanto presentarsi come reale processo di costituzione della comunità.

Invece di misurarsi con il problema di come conquistare la forma di una forza pratica, capace di mediare positivamente giorno per giorno, nella vita empirica, nel lavoro produttivo, nei rapporti personali, la formazione di una nuova base sociale coerente con i propri presupposti; invece di procedere finalmente nella direzione del superamento della proprietà privata, attraverso lo sviluppo empirico della proprietà individuale, il comunismo sviluppava una ipertrofica illusione che la politica fosse la forma dell'attività e del pensiero capace di riassumere efficacemente in sé l'universalità, ed in quanto tale costituisse la chiave per la transizione ad una nuova società.

Per il fatto stesso di aver cercato il proprio potere unicamente sul terreno della politica, i comunisti hanno inevitabilmente finito con il far assumere al movimento del quale si facevano promotori la natura contraddittoria di un mero tentativo di conquista «del timone dello stato», conquista dalla quale sarebbe dovuta taumaturgicamente sgorgare una società nuova. Si è cioè ignorato che, come la borghesia aveva praticamente e gradualmente rivoluzionato la vita quotidiana per secoli, prima di porre apertamente il problema del potere politico, così la comunità ha bisogno di essere pazientemente prodotta giorno per giorno prima di riuscire ad assumere una forma generalmente condivisa in modo consapevole. E che ogni tentativo di invertire questo processo, proprio perché pone come motore del cambiamento la mera volontà, è per sua stessa natura ideologico.

La questione sollevata da Marx già agli albori del movimento comunista, secondo la quale nella politica, nel tentativo di ridurre il problema della transizione alla presa del potere dello stato, si può giungere alla conquista della comunità solo in una forma allegorica, mentre la comunità reale resta al di là da venire, è stato dimenticato o addirittura irriso. E la consapevolezza che l'essere oggettivo dell'uomo, la sua concreta particolarità, nella politica vengono misconosciuti - con la conseguenza che la misura del progresso nella creazione della comunità sta proprio nella capacità degli individui di riuscire a non separare più da sé le proprie forze sociali, di riuscire cioè a non porle più nella figura della forza politica - è una questione che è andata completamente smarrita.

I comunisti si son così trovati sempre più spesso a ragionare di cose la cui natura è divenuta sempre più eterea, e ad enunciar principi che sono sempre più frequentemente apparsi come ”pii desideri”. Il loro linguaggio ha via via assunto una configurazione idealistica. Propugnando «libertà», «eguaglianza», «giustizia» e «solidarietà», essi hanno impresso alla loro azione una forma del tutto corrispondente alla natura della politica, ma infruttuosa sul piano delle reali trasformazioni sociali, con la conseguenza che queste ultime sempre meno si sono presentate come un prodotto della loro iniziativa.

Ultima modifica: 20 Settembre 2023