Reddito di cittadinanza?
Critica di una scorciatoia sbagliata.
La rivendicazione di un reddito garantito, separata dalla rivendicazione di un lavoro che lo garantisca, equivale quindi alla pretesa di mettere ordine in una parte della vita sociale, facendo però astrazione da un'altra parte, il cui procedere è essenziale ai fini della realizzazione di quell'ordine. Ma c'è di più. Proprio perché la base della soddisfazione dei bisogni continua a essere il lavoro salariato - cioè la costrizione esterna, la necessità economica, e se così non fosse non avrebbe nemmeno senso chiedere un reddito garantito - ogni libertà che si costruisca attraverso l'integrale esclusione dell'individuo da questo rapporto si costituisce in opposizione al lavoro salariato. Essa ha infatti bisogno che il lavoro salariato che l'alimenta continui a essere svolto, mentre dal canto suo si sottrae alla necessità di svolgerlo. La libertà di chi godrebbe del reddito garantito riprodurrebbe pertanto la non libertà di coloro che garantirebbero quel reddito. (da "Quel Pane da spartire" - Bollati Boringhieri 1997)
“Reddito minimo e il lavoro esce dalla schiavitù”, titola l’articolo di Piero Bevilacqua a sostegno del “reddito di cittadinanza”(28.2.2013), ma, aggiungo io, purtroppo precipita nel parassitismo. Mi rendo conto che questa proposta trova una larga adesione tra coloro che si battono per un cambiamento dei rapporti sociali. Cercherò pertanto di argomentare perché, come ho già spiegato nel mio Quel pane da spartire, una simile strategia non è coerente con la possibilità di superare la crisi che stiamo attraversando.
Come scrive egregiamente Bevilacqua, “è necessario rammentare che nelle odierne società industriali il reddito della grande maggioranza degli individui è dipendente dal loro lavoro salariato”. Una realtà della quale prende magistralmente atto la Costituzione Italiana all’art. 1, quando enuncia che la repubblica “è fondata sul lavoro”. Altrettanto condivisibile è la riflessione che Bevilacqua fa scaturire da questo punto fermo: “se [il lavoro] viene meno, diventa precario, discontinuo, le condizioni della vita materiale precipitano e la dignità della persona, resa fragile ed esposta a forze incontrollabili, subisce uno scacco drammatico”. In termini semplici, il soggetto non può riprodursi. Fintanto che la disoccupazione si presenta come un evento accidentale, che coinvolge transitoriamente un numero irrisorio di individui, il rimedio che è stato escogitato – quello di garantire loro comunque un reddito – si presenta del tutto coerente. Ed ha ragione Bevilacqua a considerare questo istituto come “una conquista della civiltà giuridica dello stato di diritto”. Così com’è condivisibile il suo rammarico del fatto che in Italia questo istituto sia assente o, come nel caso della Cassa integrazione, decisamente miserevole, facendoci regredire all’arcaica fase del primo capitalismo, quando si erogavano dei “sussidi” per non far morire di fame i disoccupati.
Ma che oggi ci si debba confrontare con un problema diverso è chiaramente sottolineato dallo stesso Bevilacqua. Che, infatti, si chiede: “quali sono le possibilità che nell’attuale modello di accumulazione capitalistica, si crei sempre nuova e stabile occupazione?” E risponde: “al momento appare perfino ridicolo, con una disoccupazione che in Europa investe circa 50 milioni di persone, argomentare sulle possibilità future del sistema capitalistico di assicurare lavoro stabile alla grande maggioranza della popolazione”. La disoccupazione non è dunque di tipo accidentale e irrisoria, bensì diffusa e strutturale. Sennonché, arrivati a questo punto, le nostre strade si separano nettamente.
Bevilacqua avanza infatti la proposta di lottare non solo per conquistare anche in Italia quel “soccorso congiunturale” ai senza lavoro, corrispondente ad un’indennità di disoccupazione adeguata ai bisogni che hanno preso corpo storicamente, ma soprattutto per “rendere gli individui potenzialmente indipendenti, per le loro possibilità di vita, dal ‘ricatto’ del lavoro”. Ciò che, a suo avviso, si può fare solo “separando sempre più marcatamente il reddito per vivere dalla prestazione lavorativa”. Detto in breve: dal “diritto al lavoro” si dovrebbe cioè passare al “diritto al reddito”.
Ora, questo passaggio avrebbe un senso non solo e non tanto se il capitale non è in grado di riprodurre il lavoro nella misura necessaria a garantire un pieno impiego stabile, ma se non ci fosse più un lavoro da svolgere. Per corrispondere un reddito senza precipitare in una situazione contraddittoria si deve ipotizzare che il lavoro complessivo non sia più la base su cui la vita individuale e collettiva poggia, perché la ricchezza scaturirebbe direttamente dalla cittadinanza. Ciò comporterebbe che la Costituzione dovrebbe essere emendata, riconoscendo che “la repubblica non è più fondata sul lavoro, ma sul reddito”. Personalmente non credo che la situazione possa essere concepita in questi termini. Ritengo che ci sia ancora una mole rilevante di lavoro necessario che deve essere svolto, e che questo lavoro sia la fonte di quella parte della ricchezza che definiamo come reddito. Certo, lo svolgimento di questo lavoro – ferme restando le attuali condizioni di erogazione della forza lavoro! – non potrebbe garantire il pieno impiego. Ma ciò non giustifica il fantasticare su un’inesistente autonomia reciproca di queste due variabili. Inoltre, proprio perché si tratta di un lavoro necessario, non si può prescindere, nel suo svolgimento, da una componente costrittiva. Come Marx ha chiaramente sottolineato nel Capitale, si deve introdurre un obbligo generale di lavoro. Poiché nella nostra società la conquista della libertà personale non può e non deve essere messa in discussione, c’è un unico modo in cui questo “obbligo” può instaurarsi: subordinando l’erogazione del reddito al lavoro.
Pertanto le condizioni dello sviluppo presuppongono, a mio avviso, una pratica sociale profondamente diversa da quella dei sostenitori più ingenui del “reddito di cittadinanza”. Per consentire a tutti di riprodursi e per permettere di creare la base di un ulteriore sviluppo personale tutti debbono essere coinvolti nel processo produttivo, ricevendo in cambio un reddito che permetta loro di soddisfare i bisogni al livello storico conquistato. Fermo restando che nella fase di transizione e poi, ci sarà una minoranza che per svariate ragioni non riuscirà a partecipare al processo produttivo. A questa minoranza va riconosciuto il diritto ad un reddito, che si può metaforicamente chiamare di cittadinanza solo perché esprime la comunità di coloro che si trovano in difficoltà con la generalità di coloro che producono.
Non credo che avrei avanzato queste mie critiche alla proposta di Bevilacqua, se nel suo articolo fosse rimasto nel solco delle confuse argomentazioni che hanno sin qui avanzato i sostenitori del “reddito di cittadinanza”. Ma lui si è spinto più in là parlando di una “prospettiva diversa da quella di Keynes”, che proprio per far fronte alla crescente difficoltà di riprodurre il lavoro richiamata da Bevilacqua, anticipava la necessità per la nostra generazione di ridurre la durata individuale del lavoro – senza tagli retributivi - e di redistribuire tra tutti il lavoro rimasto da fare. E vero che con l’orientamento di Bevilacqua si pone fine all’ingenuo sincretismo di cui le lotte della sinistra hanno sofferto negli ultimi trent’anni, ma la soluzione va, a mio avviso, nella direzione sbagliata.
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