Perché la sinistra radicale sarà sconfitta di nuovo
Nelle ultime settimane si sono susseguiti sui giornali, sui siti, sui blog e nei convegni, ripetuti appelli a realizzare l’unità delle forze alternative, evitando di commettere gli stessi errori degli ultimi dieci anni, che hanno fatto dissolvere la residua presenza della sinistra radicale nel parlamento del nostro paese. E’ fuori di dubbio che il bisogno di non incorrere nuovamente negli errori del passato sussista, appunto perché, col regresso economico e l’impoverimento di molti, larga parte della società ha finito col trovarsi senza alcuna rappresentanza politica e senza possibilità di incidere per altra via sulla dinamica sociale. Ma né la pura e semplice enunciazione di un bisogno, né la sua ripetizione insistente, possono garantirne la soddisfazione, finché rimangono su un piano ritualistico. Come scrive John Kafka, “i rituali hanno il potere di indurre chi vi partecipa un senso di completamento, la sensazione di aver compiuto un atto che rende soddisfatti e sereni. Ma a volte, e ciò accade nel caso dei comportamenti ritualistici, essi possono invece generare un senso di ripetitività meccanica, che non riesce a conquistarsi un suo significato e anzi lascia l’impressione di essersi cacciati in una successione infinita di atti falliti.”
Per avere qualche speranza di giungere ad un risultato positivo il bisogno deve, dunque, essere formulato in maniera socialmente valida. Che cosa vuol dire? Vuol dire che non basta esprimere il bisogno per come immediatamente si presenta. E’ da decenni, infatti, che i lavoratori italiani gridano nelle piazze che “il (loro) lavoro non si tocca”, occupano strade, assediano imprese e ministeri, cioè esprimono il loro bisogno nella sua immediatezza, ma poi la dinamica dei rapporti produttivi rende quelle rivendicazioni progressivamente meno incisive, fino a farle dissolvere. D’altronde è dagli anni Settanta che la sinistra evoca costantemente la prospettiva di un’unità, come reazione al suo progressivo frazionamento, ma la frantumazione si allarga fino al punto di sfociare in piccole “sette”, guidate da sedicenti leader. Il bisogno deve, pertanto, darsi una forma “corrispondente all’oggetto della volontà” e deve, inoltre, tener conto delle condizioni esteriori alla volontà, visto che queste determinano se e quando “una cosa resa necessaria dall’insieme della situazione … possa entrare a far parte della vita o non possa entrarvi” (Marx). In assenza di queste due modalità di interazione con gli ostacoli che si presentano, il bisogno si limita ad esprimere il desiderio; ma poiché questa manifestazione rimane un rito consolatorio non riesce ad incidere sulla realtà, ed è destinato a evidenziare soltanto l’impotenza di chi ne rivendica la soddisfazione.
E’ ovvio che chi ripete che “uniti si vince” crede di non essere preso in questa trappola. Proprio il suo appello testimonia che egli è convinto che l’obiettivo di evitare gli errori corrisponda ad un puro e semplice rovesciamento immediato dei rapporti di forza tra le classi nell’ambito delle forme di interazione date, o con qualche aggiustamento marginale. C’è, ad esempio, chi dice che basterebbe sbarazzarsi dei vecchi leader politici, perché è stato a causa della loro presenza nelle liste che l’Unione prima e Rivoluzione Civile poi non avrebbero avuto successo. C’è chi sostiene che questa nuova aggregazione debba scaturire dal confluire in un’unica forza politica dei vari movimenti di base cresciuti sui singoli obiettivi, visto che solo in questo modo godrebbe della necessaria concretezza. C’è chi sollecita a raccogliersi attorno alla scheggia più grossa (SEL), sopravvissuta alla frantumazione della sinistra. Ecc., ecc.
Stupisce che questo insieme di soggetti, che formulano il bisogno di un’alternativa sociale, non cerchino quasi mai in se stessi la causa della loro (e nostra) impotenza, e non si chiedano se la loro stessa relazione con la crisi possa essere una delle cause del protrarsi della situazione drammatica nella quale siamo precipitati. Essi trattano la crisi come un evento meramente esteriore, che sarebbe piombato su di loro (e su di noi) per una serie di comportamenti arbitrari altrui. Contrastando questi comportamenti, essi sarebbero in grado di dar vita al nuovo, perché ciò che sono (siamo) garantirebbe finalmente la conquista dell’egemonia innovativa alla quale agognano
Ma in che rapporto sta la sinistra, anche quella sedicente radicale, con quello che sta succedendo? Non è forse la crisi anche un’espressione della sua incapacità? Non testimonia che le forme di pensiero, di esperienza, di lotta e di organizzazione che le sono sin qui state proprie, e cioè l’individualità dei militanti e dei simpatizzanti non meno di quella dei dirigenti, non sono affatto all’altezza del problema col quale pretendono di confrontarsi? E se le cose stanno così, si può veramente sperare di ottenere qualcosa di diverso dai disastri ricorrenti con appelli alla necessità di unirsi? Si obietterà: ma non c’è solo l’appello volontaristico; si lavorerà anche ad un programma condiviso! Ma il programma è l’anticipazione di ciò che si intende fare, non anche la conferma del fatto che rappresenti efficacemente il problema, fornisca realmente la sua soluzione, e cioè che si sappia e si possa fare quello che si dichiara di voler fare.
Veniamo così al punto cruciale: qual è stato l’errore passato che è sfociato nella disintegrazione della sinistra alternativa? Credo si possa rispondere che è consistito nel credere di poter ogni volta procedere ad un nuovo tentativo di imporre la propria egemonia senza imparare nulla dalla storia, senza cioè comprendere il perché delle proprie sconfitte, condannando in tal modo se stessi a ripetere ogni volta gli errori dei quali si pretendeva di sbarazzarsi. Vale cioè una critica formulata da Koestler più di tre quarti di secolo fa: la sinistra si muove in “universo saturo di ricordi – di ricordi da cui non si trae, però, alcuna lezione; saturo di un passato che non fornisce alcuna guida per il futuro … Per questo dopo ogni crisi il tempo ricomincia sempre da capo e la storia è sempre all’anno zero.” La vicenda del fallimento della “rifondazione comunista”, che la sconfitta elettorale si è limitata a riflettere, è, da questo punto di vista, da considerare emblematica, appunto perché i suoi militanti residui procedono allo stesso modo di sempre, come se nulla fosse successo. Qui c’è, indubbiamente, un problema di ignoranza metodologica della maggior parte di coloro che oggi si schierano a sinistra.
La crisi e le sconfitte non sono altro che catastrofi del proprio modo di essere, fallimenti dell’individualità sociale di chi non ha metabolizzato coerentemente i cambiamenti intervenuti. Cosicché l’azione risulta inadeguata di fronte ai problemi che quei cambiamenti hanno fatto emergere. Il soggetto che si cerca di evocare con gli appelli volontaristici manca infatti del principio di orientamento – quello che, con una felice espressione, René Spitz ha chiamato l’organizzatore dell’insieme dell’esperienza - che dovrebbe alimentare la sua vitalità. Manca così la forza gravitazionale in grado di tenere realmente e stabilmente insieme le diverse articolazioni dell’impegno sociale, attraverso una coerente metabolizzazione del passato come snodo dell’anticipazione del futuro. Come sottolinea Marx, se questo approccio riesce a “fissare per un istante la parte di un essere reale e per se stante” è subito dopo “condannato a riprecipitare nel nulla”, appunto perché pretende di costituirsi come soggetto che prescinde totalmente dal dato oggettivo, che gli si contrappone come problema, o si limita a rifiutarlo. Per cambiare non basta volerlo fare, né impegnarsi a farlo, occorre imparare a realizzarlo. E per imparare si debbono riconoscere i limiti contro i quali la storia ha dimostrato che la propria azione va a cozzare, mentre l’iniziativa volontaristica sfocia inevitabilmente in una sterile coazione a ripetere, che pretende di ignorare quei limiti.
Ma tu che proponi? Potrebbero obiettare i paladini dell’unità a oltranza. La mia risposta è relativamente semplice. Quando Marx si trova di fronte alle sconfitte operaie di metà Ottocento, non si lancia in un’ulteriore articolazione del programma sinteticamente delineato nel Manifesto. Procede piuttosto a comprendere approfonditamente l’organismo sociale che sta prendendo corpo sotto ai suoi occhi, in modo da trasformare l’azione politica in un processo che, consentendo l’appropriazione delle forze produttive create da quell’organismo e della sua cultura, permetta di orientare la dinamica sociale secondo le intenzioni di chi sente di non poter subire passivamente le contraddizioni che da quella dinamica scaturiscono. Solo in questo modo fornisce una teoria al movimento operaio in difficile formazione.
Dal punto di vista degli odierni evocatori dell’unità, Marx sarebbe apparso come un frazionista, perché evidenziava sistematicamente l’incompatibilità delle proposte avanzati dagli altri soggetti del movimento con le condizioni dello sviluppo positivo della lotta di classe. (Basti l’esempio della Critica al Programma di Gotha.) Costruendo la sua teoria egli ha però fornito alle lotte proprio quel principio organico attorno al quale il movimento è di volta in volta riuscito a riorganizzarsi, al di là delle sue ripetute sconfitte. Chi sostiene che è utopistico cercare oggi un nuovo Marx sbaglia, perché il problema non è quello di cercare chi ci dà la risposta, ma interiorizzare individualmente e come movimento collettivo un metodo di rapportarsi al problema che Marx ci ha insegnato, che dobbiamo reimparare, e che è condizione per qualsiasi cambiamento.
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